Vento reale e vento apparente

26.03.2017

A circa diciotto anni sono diventato istruttore di vela presso la mitica scuola dell'arcipelago del La Maddalena in Sardegna. Questo dopo aver frequentato per anni i corsi come allievo e aver ricevuto la proposta a far parte del corpo docente della stessa. All'inizio questo mi era sembrato una naturale prosecuzione della mia attività velica presso quella scuola ma, in realtà faceva parte della mia crescita personale, sia come marinaio ma, più che altro, come uomo. Spesso durante la mia carriera come docente di uno sport nautico mi è stata rivolta la domanda che il velista neofita, normalmente rivolge all'istruttore di turno. Consiste in: "qual'è la differenza fra vento reale e vento apparente?". La risposta che normalmente ho sentito dare da parte dei miei colleghi è stata sotto forma di concetti, spesso astrusi, come il principio di Bernoulli e la teoria del volo. Ammetto che anche io nell'esercizio dei primi anni come istruttore mi sono affidato nel trovare le risposte alle domande che mi venivano poste, ai manuali attraverso cui sono stato formato e che per me rappresentavano una sorta di vangelo della vela. Così facendo le spiegazioni che fornivo erano piene di concetti teorici, di affermazioni dogmatiche che spesso avevano più le sembianze di certi "credo" piuttosto che di elaborazioni scientifiche applicate allo sport. Certamente questa sono le risposte che formalmente è bene che si diano, legittimate anche dal fatto che chi le formule, le domande, non possiede una barca ed in vita sua non ha mai lasciato la terraferma. Al più, nella migliore delle ipotesi, ha preso in prestito alla biblioteca comunale un sacco di libri sulla vela o visto filmati in internet, o in televisione e in quel momento sta cercando delle conferme a quanto aveva appreso razionalmente.

Per quanto mi riguarda, al contrario, ho imparato con il tempo che probabilmente non dovessero essere queste le risposte che taluno cerca nel formulare determinate domande.

Dico questo in quanto quando ero alle prime armi ho conosciuto innumerevoli marinai, che padroni della teoria della vela, non si facevano il minimo riguardo a spiegarmela nei dettagli più tecnici. Alla stessa stregua, anche i primi istruttori che ho avuto la fortuna di frequentare, si sono comportati alla stessa maniera: a domanda tecnica recuperavano una risposta ancora più tecnica. L'unico problema era che non erano capaci di andare in barca oppure ne erano capaci, ma la pura poesia di una barca in movimento era al di la della loro comprensione. Fu il singolare modo di esprimersi di uno di questi a rendermi per la prima volta consapevole del delicato equilibrio che si doveva stabilire tra me, la barca ed il mare.

Costui, salito in barca con me la prima volta, si mise al timone afferrandolo dolcemente tra il pollice e l'indice, quasi stesse ascoltando con le dita il suono dell'acqua che saliva attraverso il timone. Era come un musicista che suonasse uno strumento attentamente accordato. "Devi andare con il vento – mi disse – Quando sei in barca, devi sempre andare con il vento". La lezione consisteva che dovevo smetterla di governare a forza e fare più attenzione a quello che voleva fare la barca. Dovevo tenere il timone delicatamente tra pollice ed indice, come mi era stato semplicemente mostrato. Dovevo lasciare andare la barca, lasciare che orzasse un po' finche la penna della vela si metteva a svolazzare leggermente, e poi dovevo timonare fuori dal vento quel tanto da permettere alla brezza di riempire ancora la vela e da farla smettere di fileggiare. Attenzione, questo non significa non avere obbiettivi ma è il metodo che utilizzo per raggiungerli che è diverso. Essere una cosa sola con il vento significa essere a casa ovunque nel mondo, liberi da ogni giudizio morale. Il marinaio che si rifiuta di assecondare il vento calibra la sua rotta su un punto fermo della terra, un segnale, un faro, il campanile di una chiesa. Si tiene strettamente legato a qual punto, come un re alla sua corona o un fanatico alle sue certezze, immune alle correnti che gli turbinano intorno al capo. Non naviga con il vento, naviga con i suoi dogmi, e i suoi dogmi gli ottundono i sensi privandolo della sua capacità di vedere, di pensare, di sentire, di rispondere ai propri interrogativi.

E' un marinaio sprecone; consuma più vento di quanto ne abbia bisogno per andare dove deve andare, e nella rincorsa ad arrivare per primo ad un obbiettivo sopravvento è l'ultimo a tagliare il traguardo. Ma questo è il meno, perché di tutti i timonieri che conosco è sicuramente il meno felice, dal momento che non possiede la luce. In fondo, tutto quello che ha da dimostrare in una traversata sono i suoi principi, e questo è il suo dramma.

E' come un giudice a cui importa più il rispetto letterale della legge che l'imputato, o come un imprenditore più interessato ai profitti a breve termine che al benessere dei suoi dipendenti. La caratteristica principale di queste persone è la loro totale rigidità: rifiutano di adattarsi, aderiscono scrupolosamente ai propri regolamenti, regole e programmi, anche se il mondo cristallino si infrange davanti ai loro stessi occhi. Mi chiedo come mai perseguano con tanta caparbietà la propria autodistruzione, e la risposta, almeno in parte, è che sono come il marinaio che non ha mai imparato ad andare con il vento.

In questo momento della mia vita, sono improvvisamente arrivato alla conclusione che non ho una destinazione, non ho una vera destinazione, letteralmente. La metà, il luogo verso il quale tende la mia esistenza, è il viaggio stesso, e non un punto di arrivo. Come ci arriverò è più importante che se ci arriverò, e ciò che soprattutto devo ricordare è, ora più che mai, di ascoltare il vento, perché lui mi dirà cosa fare.

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